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Dal Teatro comunale al cine-teatro "Le fontanelle"

Alla fine degli anni ’40 il settecentesco Teatro comunale (che dal 1923 era diventato anche cinema), nonostante il massiccio intervento del 1935, versava in pessime condizioni di stabilità al punto che, nel 1949, se ne decideva la momentanea chiusura affinché si potessero effettuare le necessarie trasformazioni.

Quasi contemporaneamente, l’Amministrazione comunale e il vecchio gestore Natale Lanza raggiungevano un accordo in base al quale il Comune rinnovava a questa ditta l’affidamento del Teatro per un congruo numero di anni a condizione che quest’ultima si facesse carico dei lavori di restauro. Il progetto di trasformazione venne ben presto redatto e  approvato.

Il vecchio Teatro comunale, al quale si accedeva dal cortile adiacente all’arco sant’Anna era a pianta rettangolare delle dimensioni di 30 m per 10 m e aveva un prospetto alto 8 m.

Era costituito da una sala, nella quale si sviluppavano tre ordini di palchi, e da un foyer largo 10 m, profondo 6 m e alto 8 m, assai sproporzionato rispetto alla limitata capacità della platea la quale, a conti fatti, aveva una superficie non superiore a 70 m2 e una capienza di circa 80 posti a sedere distribuiti su due file di poltrone separate da un corridoio centrale.

Dal soffitto pendeva un grande lampadario a candelabro con illuminazione a candele steariche, assai ingombrante e poco pratico, sostituito nel 1878 con dei lumi a petrolio che, a loro volta, nel 1928, furono rimpiazzati con delle lampade elettriche.

Il palcoscenico, che sorgeva a ridosso del prospetto nord, si sviluppava per tutta la larghezza dell’edificio. La zona di esso occlusa dai palchi conteneva i camerini nella parte ovest e, in quella opposta, un magazzino adibito a retropalco con una porta di servizio che sboccava sulla gradinata del castello. Al palcoscenico si accedeva dalla sala. La copertura era costituita da un tetto a due spioventi in corrispondenza della sala e uno a una falda, pendente da est verso ovest, in corrispondenza del foyer.

I palchi, di colore avorio e guarniti con velluto rosso, erano 12 nel primo ordine, 13 nel secondo e 11 nel terzo. I quattro palchi di proscenio (del primo e secondo ordine adiacenti al palcoscenico) erano stati aggiunti nel 1853.

Ai palchi si accedeva dai corridoi e dalle scale che si dipartivano dal foyer con l’eccezione di quelli di proscenio del primo ordine ai quali si accedeva dalla sala. I palchi del primo ordine avevano una sola uscita di sicurezza verso piazza Castello, attraverso una porta adiacente alla casa Spoleti, mentre quelli del secondo ordine avevano una uscita di sicurezza verso i campi, dalla parte del quartiere Salvatore, e una verso piazza Castello attraverso la scala esterna.

La necessità di un immediato e consistente intervento strutturale sul vetusto Teatro era solo uno dei motivi che ne avevano determinato la chiusura, lo specchietto per le allodole. Un altro era quello di dare risposte alla sempre maggiore richiesta di un sito con maggiore capienza. Ma il vero motivo, quello che maggiormente solleticava, era la grande tentazione di radere al suolo quel vecchiume, quel ricettacolo di pulci, per sostituirlo con un mirabolante parallelepipedo di cemento. Sarebbe andata così e il virtuoso schema si sarebbe ripetuto, qualche anno più tardi, con il convento dei Benedettini e con il Municipio.

Il progetto di recupero approntato dal vecchio gestore Natale Lanza, di fatto, stravolgeva già la primigenia struttura del Teatro dal momento che prevedeva la demolizione dei palchi, la costruzione della cabina di proiezione sopra il foyer e l’ampliamento della sala alle dimensioni nette di 24 m X 14 m che avrebbe portato (è difficile immaginarlo) la capienza a 550 spettatori. Ciò si sarebbe ottenuto ridimensionando il foyer e aumentando la larghezza dell’edificio a valle di piazza Castello.

Questo progetto, che cancellava di colpo l’antica dignità del sito, ne manteneva, tuttavia, alcune significative caratteristiche. L’ingresso era previsto ancora dal cortile, il piano di calpestio rimaneva compreso fra le quote di via sant’Anna e di Piazza castello, il palcoscenico restava addossato al prospetto nord e – anche se ampliato a causa dell’allargamento della sala – riproduceva fedelmente quello preesistente con i due ingressi dalla sala, a destra e a sinistra del palco, i camerini ubicati a sinistra del boccascena e il retropalco, nella parte opposta, con la porta di servizio prospettante sulla scalinata del castello.

Rimanevano altresì invariate l’altezza del prospetto e la tipologia della copertura. I muri perimetrali erano stati previsti in muratura di pietrame e malta ordinaria con cordoli di cemento armato, mentre per il tetto era prevista una orditura in legno e per la copertura un manto di tegole.

Le uscite di sicurezza erano cinque, tre verso la piazza e due verso i campi, sul lato opposto. Il soffitto era stato previsto in populit, un miscuglio costituito da fibre di pioppo rese incombustibili. L’acustica sarebbe stata ottimizzata sia grazie alle proprietà di isolante termoacustico del populit ma soprattutto – così ritenevano, forse a dispetto delle leggi della fisica – con l’abbattimento dei palchetti. Il progetto Lanza, inoltre, era stato pensato in maniera da potere sviluppare, in un secondo momento, una balconata in cemento armato per ulteriori 250 posti.

Nonostante fosse tutto pronto per l’inizio dei lavori, non senza qualche passaggio poco chiaro, “all’atto dell’esecuzione, per evitare la costruzione della gradinata, che comportava delle serie difficoltà per la sistemazione delle scale d’accesso (ma non era stato detto che, in un primo momento, non sarebbe stata realizzata?), si è dovuto abbandonare il vecchio progetto Lanza e si è pensato di curarne l’esecuzione diversamente” (relazione tecnica, 11 luglio 1953).

A Natale Lanza subentra una nuova cordata, la società A.R.P.A. (Arte, Rappresentazioni, Proiezioni, Attrazioni), che si farà carico di un progetto più ambizioso. L’opera sarà realizzata a spese di questa società che ne beneficerà per trent’anni.

Anche se si cerca di mascherare l’operazione con una serie di tecnicismi assai poco convincenti, è più che evidente l’intenzione – in linea con le vedute dell’epoca – di cancellare ogni traccia del vecchio Teatro.

Il nuovo progetto di massima è presto fatto (o forse è pronto da tempo) e nella relazione che lo accompagna (20 novembre 1953) si può leggere: “In sede esecutiva, per una migliore funzionalità della sala, per una sistemazione più efficiente e per essere aderenti alle norme si è appalesata la inderogabile necessità di apportare delle sostanziali varianti al vecchio progetto Lanza”.

Se si tengono presenti le date indicative delle due relazioni tecniche che corredano i progetti e quella certa (perché ricavata da una fotografia) del 21 marzo 1954, giorno della gettata della gradinata, non può saltare all’occhio la velocità supersonica con cui si dovette agire. La politica del fare che oggi qualcuno si affatica a sbandierare, al confronto, fa ridere.

Ritorniamo, però, alle “sostanziali varianti”. Queste sono:

L’inversione della sala con costruzione del palcoscenico nella zona del vecchio ingresso e del foyer nella zona dov’era ubicato il palcoscenico. Ciò si rese necessario per l’impossibilità di potere costruire la cabina di proiezione dove prevista nel progetto Lanza, in quanto in quel posto “avrebbe richiesto grande spazio”. Essendo la pianta rettangolare, non si è capito il motivo per il quale lo spazio necessario sarebbe stato “grande” da un lato e congruo dall’altro.

Ma ci sono anche motivi di ordine estetico, a detta del progettista, che hanno suggerito detta soluzione “perché in questo modo può ricavarsi un ingressso con foyer più adeguato”.

Ora, è vero che l’ingresso dal cortiletto avrebbe potuto ridurre la pomposità dell’opera che si stava apprestando ma la nuova entrata, ricavata certamente nel posto più infelice, ha sfregiato la rampa di accesso al castello dal momento che, inizialmente, per raggiungere l’entrata principale si rese necessario costruire un corridoio esterno, sacrificando una striscia di scalinata, nel senso della lunghezza e, più tardi, nel 1972-73, un tunnel sotto la scalinata.

Nel vecchio Teatro comunale, il piano di calpestio si trovava a metà fra quello del cortiletto e quello di Piazza castello per cui c’erano dei gradoni di accesso al foyer, e quindi alla sala, e gradoni per guadagnare le uscite di sicurezza. Questa configurazione, rimasta tale anche nel progetto Lanza, faceva sì che l’edificio, grazie anche alla sua modesta altezza, non interferisse in maniera significativa con il prospetto del castello. Questa armoniosa convivenza è stata spezzata con il progetto, poi realizzato, nel quale il piano di calpestio alzato alla quota della piazza, associato all’incremento della pianta e dell’altezza, di almeno due metri, hanno determinato un non trascurabile aumento volumetrico dell’edificio.

Altro particolare di non secondaria importanza riguarda la copertura. Nel progetto si parla di tetto in cemento armato con capriate e travetti prefabbricati, ricoperti con assorbenti acustici e manto esterno di tegole curve, ma alla fine si è optato – forse con una ulteriore variante – per la copertura con una sorta di volta a botte chiusa con la tristemente nota ondulina di amianto.

Ritornando alla sala, “per evitare fenomeni di distorsione prospettica e di interferenza” si rese necessario abbandonare la pianta rettangolare prevista nel progetto Lanza a favore di una forma “pressochè trapezoidale, mediante la costruzione di contromuri dolcemente incurvati”.

Nella variante al progetto, presentata dalla ditta A.R.P.A., “si manifesta anche la necessità della costruzione della balconata e ciò per raggiungere il numero di posti previsto dal progetto Lanza e non raggiungibile oggi nella sala”. La balconata viene realizzata al di sopra del foyer, dal quale si raggiunge mediante una scala larga 1,8 m, esce a sbalzo per circa 4 m sulla sala ed è strutturata a gradoni.

Essa ha una capacità di 176 posti a sedere che, aggiunti ai 380 della sala, permettono di ottenere i 550 previsti dal primigenio progetto di restauro. Alla balconata si accede dall’alto e alla sua base si trova una uscita di sicurezza che sbocca in un largo corridoio, percorrendo il quale si giunge al terrapieno dietro il castello. Una seconda uscita di sicurezza si trova nel corridoio che immette nella gradinata e, attraverso una scala, sfoga nel piazzale antistante il castello.

Il palcoscenico, come si è detto, fu costruito nella zona del vecchio foyer. A esso si accedeva da una bassa porticina, ricavata nel muro del proscenio, superata la quale si saliva nel retropalco. Qui c’era un camerino che solo di rado veniva messo a disposizione dei gruppi mascherati. I veri camerini, che poi erano tre stanzini di due metri quadrati ciascuno, erano situati nel sottopalco. La divisione di questo era infelicissima perché, dopo avervi ricavato camerini e bagni, entrambi angusti, era stata lasciata un’ampia superficie di fatto inutilizzabile. Ai camerini si poteva accedere dal retropalco e, talvolta, da una porta di servizio – chiusa da un’orrenda saracinesca – che prospettava nel cortiletto. La stessa che, per due secoli, era stata l’ingresso principale del Teatro comunale di Castelbuono.

C’è un aspetto inedito che qui vale la pena svelare. Il progetto prevedeva anche la realizzazione di un terrazzo en plein air nel pianerottolo naturale compreso fra Le Fontanelle e il Castello che poi, non si sa bene per quale motivo, rimase sulla carta. Forse non se la sentirono di esagerare.

 

Il Cine teatro Le fontanelle, finalmente, fu inaugurato la mattina del 19 marzo 1955. Dopo diversi anni Castelbuono ebbe di nuovo un suo spazio scenico dove si esibirono diversi cantanti e tante compagnie teatrali. Con il nuovo teatro, il veglione di carnevale ebbe un impulso straordinario al punto che diverse volte, come era consuetudine negli anni ’30, fu organizzato per sei serate le quali, fra rappresentazioni mascherate, balli, elezioni di reginette e di miss, si prolungavano fino all’alba.

In quel periodo aumentarono i gruppi mascherati e con essi gli spettatori dei quali, soltanto un terzo riusciva ad assicurarsi un posto a sedere. In molti ricordano, nei primi anni ’70, la fila al botteghino che si snodava almeno per tutta la lunghezza del tunnel e le pareti della sala grondanti di condensa. Per avere un’idea sia pur vaga della densità di pubblico si rifletta sul fatto che, non di rado, per attraversare la sala e raggiungere la porta del sottopalco erano necessari almeno dieci minuti. Nella mente di molti di noi riecheggiano gli accorati appelli del grande Cesare – che per tutti rimane IL presentatore del veglione – al pubblico della traboccante gradinata, l’ultima sera del veglione 1973, a spostarsi in sala per allegerirla, scongiurando il pericolo di un crollo.

L’ultimo anno in cui si registrò un gran numero di rappresentazioni mascherate e di spettatori fu il 1981. A partire dall’anno seguente, il veglione alle Fontanelle imboccò il viale del tramonto lungo il quale si trascinò stancamente fino al 1984. Quell’anno, alla scedenza della trentennale convenzione, la società A.R.P.A consegnò i locali al Comune ma, a seguito di sopralluoghi e verifiche tecniche, ci si accorse che essi non erano più agibili e vennero perciò chiusi al pubblico. Da allora tutti i gruppi, vecchi e nuovi, in maniera più o meno disincantata, hanno atteso la sua riapertura ma invano. Il Gruppo 2001 nel 1999 si fece promotore di una petizione popolare, avanzata al sindaco dell’epoca, perché Le fontanelle venissero riaperte, ma non fu degnato neppure di una risposta. Gli amministratori di questo ultimo quarto di secolo, incalzati,  hanno cercato di smarcarsi con argomentazioni goffe o fantasiose, o con alternative soluzioni megagalattiche, ma il desolante risultato è sotto gli occhi di tutti.